IL KARATE TRADIZIONALE, LA NOSTRA DISCIPLINA


Il termine Karate do in giapponese significa kara “vuoto”, te (o de) “mano”, do “Via” e nasce da un’espressione introdotta dal Maestro Gichin Funakoshi che nel 1936 modificò il termine antico to-de “mano di Cina” (Negli anni ’30 in Giappone, periodo nel quale si preparava la guerra contro la Cina, tutti i segni grafici d’origine cinese furono vietati ndr). Al termine “vuoto” egli diede più significati simbolici: dal rimando a una mente chiara e cosciente, senza egoismi, in grado di riflettere senza distorsioni; a un atteggiamento “diritto” e altruista; fino ad arrivare a dire che «La forma è vuoto, il vuoto è esso stesso forma» e l’appropriato uso e la corretta comprensione del Karate è il Karate-do, ossia l’esercizio della Via.


Il Maestro Gichin Funakoshi.

Il Karate nasce come tecnica di difesa senza armi (il rimando più immediato al significato di “mano vuota”), in cui l’avversario è attaccato a distanza, perciò risultano particolarmente utilizzati colpi dati con i pugni o con i piedi in punti vitali del corpo. Se la distanza è ravvicinata, si usano anche prese e proiezioni.
Stabilire chi vince o chi perde, non è lo scopo ultimo del Karate do, il suo scopo è di “formare il carattere attraverso la pratica”, dove per carattere s’intende la totalità della persona.

L’obiettivo tecnico nel Karate tradizionale è che un solo colpo sia talmente efficace da risultare sufficiente per sconfiggere il nemico. In passato, per arrivare a questo, da una parte si sono studiati i punti vitali da colpire (per l’antico legame con la medicina cinese e l’agopuntura), dall’altra ci si allenava alla precisione e alla concentrazione della forza nei colpi.
Naturalmente, durante gli addestramenti e nei combattimenti odierni, si è convenuto che debba restare il massimo controllo dell’azione, per cui il bersaglio da colpire è appena prima del punto vitale dell’avversario, ossia a 2-3 centimetri circa (sun-dome).

L’essenza delle tecniche è il kime, ossia la capacità di eseguire un attacco esplosivo diretto al bersaglio impiegando la tecnica appropriata e la massima potenza nel lasso più breve di tempo. Il kime è la “potenzialità” insita in un colpo, in una parata ecc., che l’allievo persegue nella propria ricerca tecnica e che si allena continuamente a sviluppare. Infatti, il kime, essendo strettamente connesso all’uso dell’energia, va costantemente esplorato.

La pratica del Karate ha inoltre benefici effetti per quanto riguarda la coordinazione psicomotoria abbracciando tutte le età, dai più giovani ai più anziani. Può avere applicazioni anche nella prevenzione e nella terapia di patologie invalidanti, non dimenticando che ha utili effetti sul livello di aggressività dei praticanti, migliorandone l’autocontrollo.

L’aspetto però fondamentale e di cui tenere sempre conto riguardo al Karate Tradizionale, è il fatto di essere un’arte marziale e come tale è una disciplina che supera la semplice dimensione fisico-biologica, coinvolgendo l’interezza della persona nei suoi aspetti psicologici, cognitivi e spirituali (intesi come valori vitali). Tali aspetti mettono il praticante in un’ottica di ricerca personale che lo porta su quella Via del Karate che, inevitabilmente, “si pratica tutta la vita”.

Il Karate si sviluppò nel xv secolo a Okinawa, piccola isola a sud-est del Giappone, allora sotto la dominazione cinese e dove, per prevenire rivolte, vi furono vietate le armi. Di conseguenza gli abitanti perfezionarono antiche tecniche di combattimento a mani nude (Tode – Mano cinese) arricchendole con elementi da arti marziali cinesi. Infatti, le radici del Karate si fanno affondare nell’arte da combattimento cinese Chao-lin, originaria dall’omonimo tempio fondato nel 495 d.C., e legata, come molte altre scuole, a pratiche religiose buddhiste o taoiste (vi viene menzionato anche l’insegnamento in loco di Bodhidharma, nel VI secolo, ma la sua effettiva presenza non è comprovata). Da qui però, non vi è una filiazione unica e diretta del Karate ma, naturalmente, una sua elaborazione nel corso della storia, partendo dai vissuti dei vari adepti, nonché dagli scontri e dalle influenze tra differenti scuole.

In ogni caso, è dal sud della Cina che è partita l’influenza dell’arte da combattimento verso Okinawa, dove la pratica della lotta a mani nude continuò anche nel XVII secolo, quando l’isola fu conquistata da un signore feudale giapponese, che mantenne il precedente divieto di uso delle armi. Il Karate non era però praticato largamente dagli abitanti, ma era retaggio della nobiltà che vi si allenava segretamente e che, nel tempo, ne fece una manifestazione simbolica e distintiva del proprio rango più che un’applicazione pratica.
Tra il XVII e il XVIII secolo iniziò però una mobilità sociale tra le diverse classi, che probabilmente portò a una penetrazione dell’arte dei nobili in altre fasce sociali e a una sua trasmissione esoterica. Nonostante ciò, fino a prima del XIX secolo, il Karate restò ancora sconosciuto alla maggioranza della popolazione e molti segreti furono mantenuti dagli stessi praticanti. Tale segretezza e la trasmissione orale dei precetti sono le ragioni per cui libri o appunti sul Karate sono quasi inesistenti.

Durante la dinastia Meiji (1868-1912), con l’inaugurazione del sistema d’istruzione ufficiale e della coscrizione militare, i medici addetti alle prove di idoneità fisica notarono e segnalarono la prestanza dei praticanti di Karate.
Era stato Anko Itosu (1830-1915) a insegnarlo per la prima volta nel 1901 in una scuola elementare e, successivamente, nel 1902 la sua pratica fu introdotta nelle ore scolastiche di educazione fisica. Pensando a una sua divulgazione verso il Giappone, Itosu scrisse I dieci precetti del Tode.

Nel 1906 Gichin Funakoshi (1868-1957 Fondatore dello stile Shotokan), allievo di Itosu, fece con altri maestri la prima esibizione pubblica a Okinawa, ma solo molto più tardi, nel 1922, anche a Tokyo, anno in cui pubblicò anche il suo primo libro sul Karate: Karate-do Kyohan.
Dopodiché il Maestro svolse una grande attività divulgativa, soprattutto nelle università.

Il simbolo identificativo dello stile Shotokan creato da Hoan Kusugi, allievo del Maestro Funakoshi.

Tuttavia, fu difficile insegnare Karate secondo il vecchio modello di Okinawa. In Giappone si era sul punto di allontanare le arti marziali dalla tradizione, per entrare in una visione più consumistica della loro fruizione, sperando in una maggiore diffusione e quindi in vantaggi economici. Il Karate come Via poteva difficilmente sopravvivere, perché c’era bisogno dell’aspetto sportivo, della competizione e di stimoli esterni. Funakoshi era contrario a questa mentalità, perché prevedeva che il Karate, come sport agonistico, avrebbe perso i propri valori di contenuto e cercò quindi di controllare gli inevitabili cambiamenti, per dirigerli verso una direzione positiva, in linea con il suo storico assunto per cui il Karate è Via di sincerità. Perciò, non acconsentì all'agonismo, ma cercò un sistema d’insegnamento che permettesse un accesso al Karate possibile anche in futuro, ma che fosse limitato, in modo che la sua pratica non degenerasse in mero sforzo stilistico.


Foto di gruppo dei Maestri Tomita, Enoeda, Kase, Shirai e Kawasoe (1978).

Ciononostante dal 1957, sotto l’abile regia del Maestro Masatoshi Nakayama (1913-1987) il Karate divenne una disciplina sportiva e agonistica diffusa in tutto il mondo.

Il Maestro Hiroshi Shirai.

Negli anni ‘60 approdò anche in Italia grazie al Maestro Hiroshi Shirai che, con la propria Federazione (FIKTA), resta ancora oggi il massimo divulgatore del Karate Tradizionale di stile Shotokan.


Tratto da Karate Do Magazine www.karatedomagazine.com

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